La trasfigurazione di Gesù e la nostra

LA TRASFIGURAZIONE DI GESU’ E LA NOSTRA

Immaginiamo, come scrisse Chesterton, di vedere il mondo capovolto: “Se uno ha visto il mondo capovolto, con tutti gli alberi e le torri appesi all’in giù come quando si specchiano in uno stagno, un possibile risultato sarebbe di mettere l’accento sul concetto di dipendenza. La correlazione è latina e letteraria; infatti il termine dipendente propriamente significa appeso“. Ecco, contemplando “Gesù trasfigurato davanti a loro”, Pietro, Giacomo e Giovanni devono aver fatto un’esperienza simile. Essa è ben rappresentata in moltissima iconografia della “trasfigurazione”: Gesù appare “appeso”, mentre i tre apostoli lo guardano proprio dal basso, con la testa sul suolo: “avvolti dalla nube luminosa”, infatti, all’udire “la voce” del Padre essi “caddero con la faccia a terra”. In quei momenti, non stavano guardando il “mondo capovolto”? Sul Tabor quell’uomo, quell’amico e maestro, stava infatti capovolgendo ogni loro idea sull’uomo, sull’amicizia, sulla vita. I loro occhi si erano aperti su un di più che può esplodere nella carne; stavano contemplando una possibilità che appariva loro “appesa” a un biancore e un’intensità che esistono solo in Cielo. Nella sua “trasfigurazione”, Gesù stava svelando loro che, nascosta nella carne, esiste una vita che “dipende”, nasce dal Cielo e ad esso è legata, “appesa” appunto. Mai visto niente di simile: nella debolezza che, come una “veste”, ricopre le ore dell’esistenza, può dunque risplendere una luce mai vista; da ogni colore, anche dal grigio della routine, anche dal rosso della passione e del dolore, anche dal nero della morte e del dolore, può scaturire il “candore” della libertà, della gioia, della pace. Quel “volto” che avevano fissato tante volte, rigato di sudore, corrugato per la fatica, disteso nella gioia, ora “brillava come il sole”, ed era un annuncio sconvolgente: la realtà, anche quella più familiare, la realtà delle persone con cui si parla, si cammina, si soffre e si gioisce, si mangia e si beve, non è solo quello che si vede, si ascolta e si tocca. Anzi, essa cela un segreto, pronto a rivelarsi in una “metamorfosi”, un “cambio di forma”, che è l’originale greco tradotto con “trasfigurazione”. L’evento prodigioso al quale i tre apostoli più intimi di Gesù stavano assistendo affermava che soggiace in ciascuno un’identità nascosta, una “forma” diversa da quella che appare ogni giorno. Ma non basta! La trasfigurazione di Gesù desta la storia, risveglia le profezie che sembravano assopite nel ricordo: infatti, “ecco, apparvero Mosè ed Elia che conversavano con Lui”. Il destino di tutta la storia della salvezza, il compimento di tutte le Scritture era quel volto radiante e quelle vesti candide. Ciò significa che il destino di ogni evento della vita e il compimento dell’annuncio della Chiesa è la nostra “trasfigurazione”. Il “cambio di forma” è la chiamata che ci ha raggiunto, e la nuova forma di essere, ovvero di pensare, di vedere le cose, di parlare, di agire, è l’opera che Dio vuol fare con ciascuno di noi. La “trasfigurazione” è il passaggio dalle nostre opere alle opere di Dio. Un mondo rovesciato, dunque, proprio come scriveva Chesterton a proposito di San Francesco, il santo nel quale si è compiuta al meglio la “trasfigurazione”: “Se in uno dei suoi strani sogni san Francesco avesse visto la città di Assisi capovolta, sarebbe stata perfettamente uguale a se stessa, tranne che per il fatto di essere capovolta… San Francesco avrebbe potuto amare la sua cittadina quanto l’amava prima, o forse anche di più; ma pur amandola di più, l’essenza del suo amore sarebbe stata diversa. Avrebbe potuto vedere e amare ogni tegola dei tetti spioventi e ogni uccello posato sui bastioni, ma li avrebbe visti in una prospettiva nuova e soprannaturale di costante pericolo e dipendenzaInvece di essere semplicemente fiero della sua città perché forte e salda, avrebbe ringraziato Dio onnipotente perché non l’aveva lasciata cadere, avrebbe ringraziato Dio perché non lasciava cadere l’intero cosmo come un vaso di cristallo che si infrangesse in una miriade di stelle cadenti“. Così anche i tre apostoli avevano visto la realtà da una “nuova prospettiva soprannaturale e di grande pericolo”: erano ebrei, e per questo portavano dentro l’esperienza della precarietà vissuta nel deserto, dove “Dio onnipotente non aveva lasciato cadere” il Popolo. Per questo, di fronte a quel rovesciamento di prospettiva, è risuonata in loro la Pasqua, e il “cambiamento di forma” di cui Israele aveva esperienza: dalla schiavitù alla libertà, dalla sottomissione al giogo del faraone al cammino nel deserto sino alla libertà della Terra promessa. E, al centro di quell’esperienza, il Sinai e il dono della Legge, perché fosse osservata da un popolo diverso da tutti gli altri. 

Per un ebreo, quel cammino di libertà abbracciato alla Torah era la “bellezza”. Per questo Pietro dice a Gesù: “Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia”. Non era semplicemente un voler catturare quel momento estatico. Pietro intuiva che ciò che stava accadendo aveva relazione con l’esperienza del suo popolo, per questo vorrebbe costruire tre “capanne”, come ogni ebreo fa durante la festa di Succot, Le tende, o capanne, infatti sono il segno della permanenza del popolo nel deserto. E proprio in quel momento, quando cioè Pietro ha intuito cosa stava accadendo, mentre “stava ancora parlando, una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo»”. Dalla stessa “nube” che aveva guidato gli israeliti durante i quarant’anni dell’Esodo, la voce del Padre ripete agli Apostoli quello che aveva annunciato nel deserto: “Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!”. Tra una mormorazione e l’altra, tra le maglie di una debolezza infinita, ogni ebreo aveva fatto l’incomparabile esperienza di poter (e dover) vivere del solo cibo della Parola di Dio, capace di trasformare la roccia in acqua. Pietro, attento ai segni come ogni buon ebreo, aveva saputo riconoscere in quell’evento il compimento dell’Esodo del suo Popolo; su quel Monte Dio aveva di nuovo parlato, ed era di una “bellezza” mai contemplata. Era “bello” quel momento, era “bello” starci dentro, ma che schianto… L’urto di quell’epifania non poteva non stordire le povere carni degli apostoli. In un momento era apparsa dinanzi a loro la visione della Verità, di ciò che di autentico, glorioso, ovvero di peso, consistente, si cela nella realtà. Ma ciò significava anche “precarietà”, la stessa vissuta dal popolo nel deserto, identica a quella di Assisi rovesciata, “in costante pericolo e dipendenza”. Vivere una vita trasfigurata contempla anche accettare la propria debolezza, e la “dipendenza” da Dio. Essere cristiani significa essere istante dopo istante “appesi” al Cielo, perché i “pericoli” sono “costanti”. E il filo che ci lega al Padre, quello al quale siamo “appesi” per vivere in pienezza ogni frammento della nostra vita, è l”ascolto” del Figlio amato di Dio. Non c’è altro cammino sul quale trasfigurare la nostra realtà in un0identità celeste, in un amore oltre la morte, che “ascoltare” Cristo. Sul Tabor iniziava per gli apostoli, come per ciascuno di noi, un cammino nuovo, che li avrebbe condotti con Gesù al Calvario. Un altro Monte, dove si sarebbe compiuto il rovesciamento di ogni realtà, la trasfigurazione della morte in un’esplosione di luce. E’ il cammino che Dio ha preparato anche per noi nella Chiesa. Essa è la Madre di ogni trasfigurazione, perché nel suo seno si compie il mistero accaduto sul Tabor. In essa possiamo “ascoltare” le Parole del Figlio che “cambiano forma” al nostro essere, sino a farci “brillare come il sole”, rivestiti delle vesti battesimali “candide” di misericordia. Coraggio, il Signore si “avvicina” a noi anche oggi, e ci “tocca”, attraverso i sacramenti. E ci dice di “alzarci, di risuscitare e di non temere”. E’ questa la “trasfigurazione” che ci attende: risorgere dalla morte dei nostri peccati, dalla schiavitù alla menzogna, alla concupiscenza, all’egoismo, per essere trasformati in puro amore. Siamo chiamati a vivere come uomini trasformati dalla Grazia, che camminano nel mondo a testa in giù, indicando a tutti dove guardare: al Cielo, dove ogni uomo è appeso pur non sapendolo. Basta mostrarglielo, come ha fatto Gesù ai suoi apostoli.

Tratto da http://vangelodelgiorno.blogspot.it